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Argio Orell
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Argio Orell
Un episodio del suo periodo di studio all’Accademia di Monaco caratterizza bene la tendenza violenta e meravigliosa di quest’uomo per l’arte.
S’era messo in testa d’entrare all’ultimo corso di perfezionamento dello Stuck, subito, senz’altro, senza far esami, e aveva a pena 18 anni.
E se ne va, il piccolo Orell, di nascosto dei compagni, per non farsi burlare, con la sua grande cartella sotto il braccio verso la villa Stuck che era un poco fuori della città su una collinetta.
V’era anche nella cartella un quadro: quel suo «Fuori dell’ombra» che il Veruda aveva tanto lodato.
Il professore non lo riceve: il portiere gli dice di ripassare il giorno dopo; ma anche il giorno dopo lo Stuck non fu visibile: il professore aveva ricevimento.
Ma il piccolo Orell non si scoraggia e ritorna ancora alla villa: il burbero portiere gli canta chiaro che nella scuola di Stuck non c’era posto per lui, tuttavia gli chiede il nome.
Quando il cerbero lo sente – sapeva forse già – lo fa subito entrare e il giovanotto entra col cuore tremante.
Lo Stuck si meraviglia che Orell fosse così giovane, si compiace di sapere che non aveva studiato con nessun maestro e gli chiede perchè invece di firmarsi Argio Orell si firmasse Orell Argio.
«Perchè suona meglio!» gli risponde il giovane.
«Questo mi piace!» ribatte il professore e gli scrive su un biglietto da visita l’ordine di ammissione al suo studio.
I quattro colleghi del suo corso cominciano a guardarlo di mal occhio; ma egli se ne vive solo, timido, appartato, lavorando, studiando, pensando, sognando.
All’esposizione finale egli non poteva concorrere perchè non era permesso esporre dopo il primo semestre.
Ma una dolce anima amica gli dà, un giorno, la lieta novella: in mezzo alla sala dell’esposizione c’erano, su due cavalletti, i suoi ultimi studii e con la creta bianca il suo nome scritto di pugno dello Stuck.
Il professore era andato egli stesso a prendere i lavori e li aveva esposti ed il collegio di tutti i professori costituitosi in giuria trovò che il nostro artista era l’unico degno del premio d’onore riservato agli stranieri.
Tornato a Trieste fece un’esposizione personale nel salone Schollian ed ebbe un successo straordinario come pochi se ne ricordano a Trieste: la folla faceva ressa innanzi al negozio per entrare e per vedere i lavori di questo giovane portentoso il cui nome era sulla bocca di tutti e che la stampa lodava con articoli di critica sincera ed affettuosa.
C’era fra l’altro la sua «Sinfonia profonda» – che fu poi anche esposta alla Secessione di Monaco e riprodotta nello «Kunst des Jahres» nel «Kunst fur alle» ecc. – un quadro che non risponde al titolo come concezione ma solamente come colore: è un violinista – suo cugino Guido Pascolati scappato, poi, volontario di guerra da Trieste e morto da eroe – che studia la musica fra mezzo a una sinfonia profonda di colore: del verde, del giallo e una grande macchia bianca nel mezzo.
Quest’esposizione gli dà i mezzi per vivere un anno e se ne va a Venezia coll’intenzione di spingersi oltre: a Firenze e a Roma.
Ma Venezia lo incatena, con il suo fascino, con il suo incantesimo, con le sue gondole ch’egli allora non considerava come un mezzo di trasporto per l’amore, ma come un mezzo tragico per essere solo: l’uomo e i suoi pensieri: un qualcosa come un trasporto funebre antico.
Solo più tardi la gondola non fu più «pura» per lui!
A Venezia concepisce un grande quadro che non ha, però, mai fatto: «Venezia» il risultato del suo odio contro i pittori stradaioli della grande maga: una donna con la bocca dipinta, ravvolta in uno scialle; come qualcosa di seicentesco e di autunnale su uno sfondo notturno: dietro, un palazzo chiuso, illuminato: il mistero dí Venezia.
Ma a Firenze non ci andò mai: aveva consumato tutto il suo danaro vivendo nei più lussuosi «hotels» e nelle più basse locande, tenuto stretto da Venezia come da una bella donna.
E se ne tornò a Trieste a lavorare. A 25 anni concorre per il pensionato di Roma della fondazione Rittmayer con due quadri: lo «Spleen» e «Genietto» – ora di proprietà della baronessa Parisi.
Ma la giuria non accetta quel «brutto quadro» ch’era lo «Spleen» : quadro di grande violenza; un giuoco di scorci, una difficoltà superata di colori.
Parlandomi di questi lontani tempi di sua giovinezza violenta, Argio Orell ha come un triste rimpianto: «Vorrei saper ora dipingere come allora, con quella santa ingenuità del mio spirito, coli quello onestà e quella violenza del mio talento!»
Ma, poi, ancora ha un altro rimpianto: si pente, quasi, d’aver detto questo ed esclama: «Ma il mio talento d’allora era un po’ come il tenore stradaiolo di Napoli: non aveva nessun valore perchè non era cosciente e ragionato».
Tre anni dopo si rifà il concorso: fra i concorrenti il più giovane è lui ma per la critica e la giuria è troppo maturo e troppo pittore e gli intendimenti della fondatrice erano quelli di incoraggiare i giovani artisti che non si erano ancora affermati.
Il premiato – moralmente – è Orell, ufficialmente è Edgardo Sambo. Allora comincia per lui un periodo di triste vita.
Va a Ferrara, a Mantova, si rinchiude nella solitudine di Pomposa; poi è di nuovo a Trieste, lavora e vive nel fermento di una vita scapestrata fra gli amici, restando sempre il «poeta», il «puro folle» astraendosi col pensiero, dalla bolgia che lo bruciava e lo trascinava.
Un bel giorno gli amici non lo vedono più: s’è ritirato, non fa più le «nottolate» con loro: qualche cosa di nuovo c’era nella sua vita: un’anima salvatrice sera messa sul suo cammino. S’era finalmente innamorato e aveva sposato.
A venticinque anni diceva che il miglior pittore è quello che non pittura: infatti per qualunque artista, ma sopratutto per un pittore la peggior cosa che gli possa capitare è proprio quella di dipingere, forse il piacere più vero, l’unico momento di gioia, quello che dà la febbre, è quando l’artista concepisce la sua opera: non a pena egli si mette al cavalletto e prende i pennelli in mano comincia il dolore del lavoro, l’elaborazione materiale.
Quello che Argio Orell diceva a venticinque anni può sembrare forse un’assurdità o un paradosso ma non lo è se si pensa al concetto profondamente e intimamente individuale che Argio Orell ha dell’arte.
Per lui la pittura non è altro che il frutto visibile di una ispirazione; senonchè l’elaborazione materiale di questa ispirazione può anche cambiare completamente la prima visione, quando l’artista non abbia a sua disposizione una istintiva sicurezza tecnica ben disciplinata.
Solo quando l’anima del pittore può giungere ad una suprema severità speculativa, si potrà parlare di attuazione. Argio Orell, è, quindi, convinto che non esista opera d’arte che non già risultato di freddo elaborazione.
Forse così l’artefice si esprime: ma non è più lui. Egli non conosce un’opera qualunque che sia di getto secondo questa sua concezione.
Le esercitazioni dei nuovissimi gli sono odiose: si sente futurista più di ogni banditore di violenze artistiche più o meno in buona fede e si sentiva tale prima ancora d’ogni loro proclama.
L’arte per lui non ha bisogno di ismi. Dovrebbe esser semplicemente l’espressione sincera di sensibilità superiori che hanno qualcosa da rivelare. Non è un impressionista e non è un decoratore.
Se egli potesse radunare in una sola opera quello che sente e quello che concepisce, i caratteri di questa opera dimostrerebbero ch’egli è altrettanto preraffaellita quanto impressionista.
– Insomma: è la negazione di qualunque «ismo»: vuol essere più semplice che può: vuol quasi poter portare la sua anima in mano.
Le sue opere hanno un’impronta assoluta che viene da questa sincerità attraverso lo stile e la naturale facile ed immediata espressione pittorica.
La natura non può servire che da ispiratrice; essa sfugge e mortifica quelli che tentano di costringerla fredda nel marmo o irrigidirla sulla tela, mentre si concede benevola a quelli che amandola, non domandano a lei che i mezzi per esprimere se stessi.
Così pensa l’Orell; l’arte dev’essere violentamento e traduzione della natura.
Egli lavora solamente quando ha qualche cosa da dire: e, non fa nessuno sforzo a dare alla sua opera l’impronta che la distingue, perchè cerca di essere, per quanto gli è possibile, sè stesso.
Infatti la novità ad ogni costo non dura che pochi giorni; ha qualche cosa di cartellonistico; ‘impressione di sè stesso rimane, perchè egli dipinge quello che di suo esiste già in natura: quindi anche nella sua semplicità v’è un’impronta di violenza.
Argio Orell non ha ereditato una tecnica da nessuno: la tecnica ch’egli possiede è frutto del suo studio; ma un bel giorno pur essendo quasi un virtuoso, gli parve di non dipingere: perchè la sua facile pittura non era abbastanza ragionata ed espressiva.
Ha guardato i colori e gli è venuta l’antipatia per i colori ad olio che in qualunque maniera si adoperino, hanno sempre troppo grasso ed allora ha cominciato a capire che cosa fosse veramente la tempera pur considerando l’a fresco come l’ideale della pittura.
E s’è messo a lavorare, dipingendo tanto la tempera a grosso quanto la tempera a trasparenza, cercando di forzare il colore pur di raggiungere quello ch’egli si proponeva sentendo di essere sempre nuovo, sempre vergine di fronte ad ogni nuovo problema.
Un lavoro di Argio Orell che merita d’essere rilevato e che dimostra com’egli sappia trattare e la piccola e la grande composizione è il mazzo di tarocchi fatto per il Lloyd Triestino.
E’ il più bel mazzo di carte del mondo – dice lui «perchè gli altri sono tutti brutti».
C’è voluto una grande fantasia e molto coraggio a fare tutte queste novanta composizioni ordinate da una regola creata dall’artefice.
I piroscafi dei Lloyd andavano in Egitto, in Spagna, nelle Indie e nel Giappone e Argio Orell s’è ispirato da questi paesi mettendoli in rapporto coi segni dei tarocchi: cuori, picche, fiori e quadri.
Per i quadri all’Egitto, per i fiori al Giappone, per le picche alla Spagna, per i cuori all’India e alla Persia.
E così ha creato 16 figure, quattro per ogni paese, infischiandosi di ogni specie di storia tanto che il re spagnuolo è un arabo, il cavaliere ed il fante sono dei «toreros» e dei «piccadores» e la donna ha il costume del settecento.
Il nuovo di queste carte sta nelle figure: il punto di calco è un punto e non la linea, quindi tutto un fantastico giuoco di proporzioni su una regola fissa che non compare e non s’indovina.
Un lavoro, insomma, di alto coraggio, nel quale la fantasia di composizione e la precisione della tecnica arrivano a un massimo di eleganza e di ricchezza.
Una conversazione con Argio Orell, o al tavolo di un qualsiasi restaurant di Trieste, o nella «hall» dell’albergo di Portorose o nella sacra bellezza del suo studio è qualche cosa di veramente interessante ed istruttivo.
Innanzi ai suoi lavori, poi, egli dimentica qualunque cosa per dare libero sfogo a tutta la piena dei pensieri, delle considerazioni dei paradossi che gli si affacciano alla mente e coi quali sente il bisogno – imperioso, assoluto – di illustrare la sua opera.
Non già, però, questo o quel quadro, ma la sua opera di pittore in genere: concettualmente e tecnicamente.
I suoi quadri: dal «Genietto» – opera giovanile – al «Ritratto dalla Nonna» – acquistato dalla Banca Italiana di Sconto alla Prima Biennale di Roma e donato al Museo Revoltella di Trieste a «Quella del lupo e della rosa» a l’«Inseguita» – il primo quadro venduto a Trieste, dopo la redenzione – sono tutti una espressione, varia e molteplice, di quello ch’egli intende per opera pittorica.
La «Nonna», ad esempio, è senza dubbio uno dei suoi migliori quadri: la pittura qui raggiunge per quella parte che può raggiungere un quadro – la perfezione.
Argio Orell non poteva pretendere dal soggetto incitamenti a fare del colore: quella vecchia signora che gli era innanzi ispirava tutto un scarso profondo di bontà e di onestà e questo senso egli ha saputo trasfonderlo, con mirabile evidenza, nel quadro stesso, sopratutto per il modo con cui il lavoro è condotto: non tormentato, non raffinato, non più toccato.
Si era proposto di mettere del bianco e del nero e un poco di oro dentro un limite di quadrato ed ha avuto il coraggio di fare un viso e due mani strette insieme che sono la più bella espressione della bontà umana.
Il quadro da poco compiuto: «Quella del lupo e della rosa» è il ritratto di una signora: più che un ritratto, un’idealizzazione di un gesto della donna moderna che scaturisce da un’armoniosa e sapiente fusione di colore e di linea.
Mentre le parti nude come il volto, il collo e le mani sono intonate ai più brillanti toni dell’oro; la gonna, il cappello, la bluse, il nero della rosa, con qual che guizzo di rosso, sono in tutto il complesso della figura staccata dal fondo bianco, tenuti con un’estrema sensibilità in un accordo di valori neri: si potrebbe dimostrare, con la tavolozza alla mano, che appena si tocca, quel nero si macchia, nel senso che c’è il tono che occorre per l’armonia continua, e nulla più; ossia che l’artista ha saputo e sa rendere l’esatta intonazione del colore senza ricorrere alla maniera di molti pittori moderni che credono di raggiungere quest’esatta intonazione con quattro pennellate buttate giù con intenzione… magistrale ma con tecnica da strapazzo.
Oggi si dipinge largo, si vuol far presto, senza pensare che l’opera ha bisogno di essere elaborata nel concetto e nell’attuazione, e che richiede quello stesso procedimento che richiede la musica: proposto un motivo, si deve svilupparlo.
Questo è il quadro, questo è il vero significato della parola «colorire» e bisogna, quindi, avere – cosa che Argio Orell possiede con perfezione – l’arte dei continui richiami: in alcuni punti lo stesso tono serve da chiaro, in altri da riflesso, in altri da scuro e Argio Orell ha il coraggio di dipingere tutto continuatamente, cioè egli cerca di disciplinarsi in modo da poter dipingere il suo quadro, grande o piccolo in una sola volta, in una sola tirata, dopo averlo elaborato in sè per lungo tempo e ciò per avere una continua parentela di toni.
Per queste vie egli arriva anche al coraggio di porre un tono nero vicino ad un bianco con grande disinvoltura, raggiungendo gli effetti armonici che s’era proposto con sicurezza.
Alcuni suoi quadri ch’egli chiama «grotteschi» e che fanno o dovrebbero far parte di una serie di concezioni molte delle quali non per anche espresse, ci rivelano un altro lato interessante dello spirito di Argio Orell.
Molte volte l’uomo cioè il nostro artista – di fronte ad un fatto della vita vede la brutalità di tutte le cose ed allora gli escono di mente e di mano quei grotteschi che sono un’espressione di satira e di ironia ed uno sfogo, direi quasi, di linea e di colore.
Sono notevoli, ad esempio: «Concorso di bellezza» «La Crisi del melodramma» «La lezione di storia d’arte orientale» e via dicendo.
Ma lo spirito di Argio Orell così portato com’è all’elaborazione perfetta d’un qualsiasi concetto pittorico ed alla stilizzazione – tutto, in arte, secondo lui deve essere stile si è anche, di conseguenza, compiaciuto di molti lavori che non sono il quadro.
Così egli s’è dedicato, non avendo altro campo per farsi valere come decoratore, ai cartelli, disegnandone alcuni di concetto e di tecnica mirabili; per la prima esposizione istriana del 1910, per la società di navigazione Cosulich, per l’albergo di Portorose, per una fabbrica inglese di thermos, per l’esposizione d’arti decorative d’arredamento e ammobiliamento a Trieste nel 1906 ecc ora nel concorso per il cartello della Vittoria su oltre cento concorrenti, il suo riportò dalla giuria e dalla critica i più alti elogi.
Alle pergamene, fatte sempre sotto lo sguardo poliziesco dell’Austria, per ricorrenze italianissime; e agli ex-libris: due dei quali veramente degni dei più begli ex-libris della tradizione libraria italiana: quello del dott. Ioseph Arrnstein e quello di Isabella, nei quali da tendenza stilistica di Argio Orell ha avuto tutto il campo di manifestarsi raffinata e perfetta.
Questo spirito decorativo lo ha anche portato a concepire tre altre opere di bellezza: il cofano regalato a Gabriele D’Annunzio; il dono che la città di Trieste farà al Re d’Italia: un acroterio romano trovato a San Giusto con impressi i segni capitolini innestato in uno zoccolo di bronzo del più semplice e più puro lavoro che si potesse concepire; e il cofano continente un pizzo simbolico che le donne della Venezia Giulia offriranno alla Regina.
Argio Orell è uno dei più sensibili e dei più tormentati artisti del mondo: quest’affermazione non sa di paradosso nè di esagerazione: egli è lo spirito incontentabile per eccellenza che non dà nessun valore a quello che ha fatto fino ad ora e che domani non darà nessun valore a quello che avrà fatto fino ad allora.
Egli non è ancora quello che vuole e la sua anima sogna e tende sempre al capolavoro, ma siccome m ogni opera ci sono attimi di capolavoro, e il capolavoro – come egli pensa, e giustamente – non è altro che la perfetta tecnica dell’ispirazione nell’opera materiale, egli sogna e vuole e si assilla per raggiungere quest’accordo: molte volte il capolavoro c’è e l’artista non se n’accorge.
Ma anche quando Argio Orell avrà carpito alla sua vita spirituale la scintilla di quest’accordo, non sarà contento, ma avrà dato all’arte italica e all’arte triestina più di un capolavoro!
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